Anni fa scrissi una fiaba dedicandola ad una persona a me molto cara.
Certi incontri cambiano la nostra vita perché aprono i nostri orizzonti e sguardi sul mondo, li rendono più ampi.
Tale riflessione di caratteri opposti, rappresentò per me una occasione per integrare lati di me che non conoscevo ma che lo spazio dell' incontro permetteva di sperimentare.
Questa fiaba simbolicamente mi è stata preziosa per raccontare tutto questo.
Racconta che in un giorno solo, vi è interezza tra notte e sole luminoso ,come nella vita di un uomo sia la luce che ombra restano le facce di una stessa medaglia.
L'aquila e la civetta vengono presi a prestito come rapaci abitanti il notturno e il diurno, per raccontare cosa sia la dualità che trova nella sua piena riflessione, complimento.
L'unione nell'albeggiare.
Mi è capitato di assistere, una volta sola, alla nascita del sole e allo spegnimento delle stelle in cielo: il passaggio di testimone tra notte e giorno avviene in un momento, brevissimo, molto luminoso e di massima intensità. Capita che la civetta canti e risponda l'aquila quasi si scambino le consegne.
La natura, come sempre, ci è maestra dello scioglimento di questa scissione tra buio e luce nella Bellezza come valore ed integrazione di opposti ( brutto e bello, giusto e sbagliato, vero o falso, buono e cattivo, et) .
L'aquila della notte e del giorno
Fiaba dedicata a chi crede ancora nella cultura dell'umiltà e dell'incontro.
Fiaba classificata tra le cinque vincitrici del concorso nazionale ”la favola bella” di Legnago 2009 )
C'era una volta un'aquila maestosa, forte nel suo volo a falcate.
Tagliava l'aria senza paura e si faceva trasportare dal vento
che impetuoso soffiava ad alta quota, lassù vicino al Grande Spirito.
Il suo sguardo attento scrutava la terra e partecipava ad ogni piccolo movimento della natura.
Solitaria conduceva le battaglie per la sua sopravvivenza e non chiedeva niente a nessuno.
Non le avevano insegnato a chiedere.
Chiedere significava essere deboli, bisognosi.
Non poteva permetterselo: era un rapace.
Ogni animale la temeva e provava verso di lei un reverenziale timore perché era l'unico uccello in grado di spingere il suo sguardo oltre l'orizzonte.
Volteggiava appena avvistava una preda; precipitava in picchiata e senza toccare il suolo afferrava con il suo becco ricurvo l'animaletto che, ignaro, si rotolava in una lotta in cui a vincere era sempre uno solo.
Non aveva mai perso.
Nelle guerre era sempre vittoriosa.
Animata da forte volontà non si scoraggiava se il suo andare era ostacolato dalle intemperie.
Quel giorno, l'aquila volava senza meta, sola e silenziosa:
le avevano insegnato ad amare i silenzi più che a lanciare grida stridule nell'aria. Urlare poteva significare: avere paura; non era possibile, non nella sua specie.
Era così immersa nel suo andare che non si accorse che a guardarla, giù nel fitto bosco c'era una civetta.
Una civetta che, per un momento, aveva deciso di oltrepassare il confine del buio e avventurarsi nei bagliori del sole.
La civetta, proprio perché i suoi occhi erano abituati alle tenebre, era chiamata dagli uomini l'aquila della notte e vedeva ciò che ad altri sfugge in assenza di luce.
Quell'animale si trovava, in quel mentre, disorientato ma eccitato all'idea di nuove scoperte.
Guardò in alto e vide l'aquila.
L'ammirò e, per un attimo, pensò che avrebbe voluto diventare come lei, alzarsi così maestosa in quei voli.
Senza paura, con coraggio.
Ma era goffa, la sua vita era più semplice, abituata a mangiar topolini, a riscaldarsi nelle case diroccate che comunque le davano un caldo tepore a cui ritornava stanca con fiducia. I suoi battiti d'ali erano senza rumori e nessuno riusciva a sentirli.
L'aquila viveva nelle più alte vette e respirando l'aria rarefatta e pulita dei mattini costruiva i suoi nidi sulle rocce, in terreni impervi e irraggiungibili.
La civetta pensando a questo, abbassò lo sguardo e pensò a malincuore che non si sarebbe mai potuta incontrare con quell'amico rapace.
Erano troppo diversi, troppo lontani.
Accade però che alle volte i pensieri si incontrano e fu così che l'aquila, quel giorno, decise di superare un confine:
volle guardare a terra non solo per mangiare e trovare una preda, ma per osservare con umiltà la vita di qualche animaletto. Qualcosa di diverso le avrebbe potuto raccontare, anche se da lassù oramai conosceva molti aspetti della vita.
Incontrò lo sguardo di quella civetta.
Nei suoi occhi, grandi e aperti, abbassandosi in volo, vide le notti più buie, si immerse nei silenzi più profondi e conoscendo quanto erano grandi gli spazi del cielo con il sole, ammirò la bellezza delle stelle della notte con la luna.
Vide i sogni di saggezza degli uomini, il loro sonno ristoratore e l'amore delle notti. La dedizione dolce di una mamma per il suo bambino alzata al suo capezzale; il rispetto di un figlio per il proprio padre ai piedi del letto della sua sofferenza.
Quante emozioni trovò nella notte...lei, aquila, abituata alla luce, alla certezza del giorno, chiaro, dove tutto era prevedibile.
Lì nella notte...tutto era possibile, tutto era contemplato e inaspettato.
La civetta, ammirata dal volo basso di quell'uccello reale, osservò con curiosità la sua forza e nelle sue ali sentì la frizzante freschezza dell'aria di alta montagna, la bellezza dei voli di libertà, la dolcezza e l'ebrezza di lasciarsi andare ad alte quote senza la paura di precipitare.
Vide attraverso di lui quanto era bello vedere lontano, al di là del visibile oltre l'orizzonte. Ammirò il coraggio della sua solitudine.
Impararono insieme, in silenzio.
Poi, l'aquila si alzò nuovamente in volo alto e la civetta si
preparò per la notte.
Da quel giorno, con umiltà, due animali diversi per abitudini
e sguardi verso la vita si incontrarono con rispetto.
Tutto ciò che vive può cambiare.
(Fiaba classificata tra le cinque vincitrici del concorso nazionale ”la favola bella” di Legnago 2009 )
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